
Giancarlo Antognoni, bandiera della Fiorentina ed dirigente viola, ha parlato al quotidiano Il Foglio, queste le sue parole:
“Come accade nella favole cavalleresche, mi hanno messo addosso una maglia, che aveva un colore diverso da quella del Milan. Il viola mi è entrato nell’anima e ci è rimasto per sempre. La prima volta in Serie A avevo diciotto anni. Tre giorni prima Nils Liedholm, che all’epoca allenava la Fiorentina, mi aveva detto che a Verona sarebbe toccato a me. L’esordio nel campionato non solo non si scorda mai, ma è per sempre come se fosse accaduto ieri. Ricordo tutto: l’apprensione di una vigilia infinita e la partita, dove riuscii nell’impresa di non avere paura. Era l’otto il numero di quella mia prima indimenticabile maglia”.
A portarla alla Fiorentina fu il presidente Ugolino Ugolini, quasi omonimo del conte Ugolino, forse il personaggio più famoso dell’inferno dantesco…
“Sì, è stato lui a portare a Firenze, a distanza di un anno, prima il compianto barone e poi me. Io arrivavo dall’Asti, che militava in Serie D. A quindici anni aveva fatto un provino con il Torino che, dopo svariati tira e molla, aveva deciso di trattenermi, ma io scelsi Firenze, anche per riavvicinarmi a Perugia e alla mia famiglia. Era andato via di casa a quindici anni e la nostalgia era sempre più forte”.
Lei della Fiorentina è stato il capitano e una bandiera che non mai tradito. Ne è orgoglioso?
“A distanza di tanti anni, ogni giorno qualcuno si complimenta con me per quella scelta. Purtroppo con la Fiorentina ho vinto troppo poco, ma l’affetto di un’intera città non mi ha mai abbandonato. Poche vittorie sul campo, ma una, forse più grande, al di fuori. La gratitudine nella vita è importante. Ti torna indietro, solo se sei entrato nel cuore della gente. L’acquisisci negli anni, non la puoi comprare una volta per tutte”.
Ha mai ricevuto proposte da altre squadre, che ha restituito al mittente?
“Durante i miei anni d’oro mi hanno cercato insistentemente prima la Juventus nel 1968 e poi la Roma nel 1980. Ricordo che, dopo i Mondiali in Argentina, la Juve mi voleva a tutti i costi. Alla fine, però, non se ne fece niente. Quanto alla Roma, andai direttamente da Dino Viola, ma rifiutai la sua offerta, anche perché a Firenze era appena diventato presidente Ranieri Pontello, che per la Fiorentina rappresentava un salto di qualità e aveva portato in città un nuovo entusiasmo”.
Quale è stato il giorno più bello della sua vita sportiva?
“I giorni più belli sono gli esordi. Con la Fiorentina e con la Nazionale. Le prime volte sono un brivido, che ti scuote e non ti lascia più. Indimenticabili sono anche i giorni dei rientri, dopo gli incidente più gravi”.
E quale è il giorno che non avrebbe mai voluto vivere?
“Sicuramente quelli segnati dagli scontri di gioco, con il portiere del Genoa Silvano Martina nel 1981 e, tre anni dopo, con il difensore della Sampdoria Luca Pellegrini. Gli scontri fanno parte del calcio, ma così violenti proprio a me dovevano capitare?”.
Rimpianti?
“Di aver vinto quasi nulla con la Fiorentina, di non aver giocato la Coppa dei campioni e la finale dei Mondiali del 1982”.
Ha anche dimenticato, caro Antognoni, il campionato perso in quello stesso anno all’ultima giornata dalla Fiorentina e vinto parallelamente dalla Juventus. Che ricordo ha di quel giorno?
“Fu un giorno tristissimo per tutti noi fiorentini. Abbiamo accusato la pressione di un sogno troppo grande. A Cagliari non abbiamo giocato come potevamo e dovevamo. Peraltro ci annullarono un gol che era buono”.
Mentre alla Juventus concessero, se non ricordo male, un rigore generoso…
“Lasciamo stare”.
Perché è andato via dalla Fiorentina?
“Perché i matrimoni si fanno in due. Sono stato costretto al divorzio dalla società, ma il mio matrimonio con la città e con i tifosi è inattaccabile. Io resterò viola per sempre e dalla Fiorentina non mi separerò mai”.
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