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Batistuta: “La prima volta a Firenze pensai, “Ma dove sono capitato?”. Poi dopo mezza giornata mi sono innamorato”

Rassegna Stampa

Batistuta: “La prima volta a Firenze pensai, “Ma dove sono capitato?”. Poi dopo mezza giornata mi sono innamorato”

Redazione

1 Ottobre · 09:36

Aggiornamento: 1 Ottobre 2022 · 09:36

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«La prima immagine di Firenze nel ’91 lo lasciò attonito. ’Mi guardai intorno e pensai: ‘Ma dove sono capitato?’. Poi tra Gabriel Batistuta, per tutti Batigol, Firenze e la sua gente è scoppiato un amore che si rinnova ad ogni sua visita, nonostante all’inizio anche il Re Leone avesse avuto paura di ’finire nel dimenticatoio’ e non tra i miti i del calcio. Che per lui sono Maradona e Messi. Seduto tranquillamente a un tavolo dell’hotel Croce di Malta dove alloggia, jeans e maglietta, Batistuta racconta l’uomo, il padre, il marito, l’allevatore di mucche in Argentina. Un’altra vita dopo il pallone. E non solo il campionissimo che ha fatto sognare migliaia di tifosi viola. Batistuta, partiamo dall’inizio. Perché per lei fu così difficile arrivare a Firenze? «Ero abbastanza triste, stanco per il viaggio. Sarei dovuto andare in vacanza e invece vinciamo in Cile e la Fiorentina mi sta aspettando. Atterro a Roma, in auto fino a Firenze sud e penso ‘ma dove sono capitato?’. L’Argentina è diversa, è tutto nuovo…». 

Tutto qui? «Quella sensazione è durata mezza giornata, poi mi sono innamorato». Lei vive in Argentina, cosa fa e perché torna così spesso a Firenze? «Perché è casa mia, qui ci sono i miei amici, in Argentina allevo mucche». Sì, la sua storica cerchia di amici fiorentini… Chi sono, cosa fanno, che cosa vi lega? «E’ gente del tutto normale. Non sono dell’ambiente del calcio… sa, non si decide di diventare amici, accade e basta come quando ci si innamora». Ma che persone sono? «Non glielo dico, ho paura di dimenticarne qualcuno. Ma lui sì che lo nomino, Luigi Gaudiano: mi venne a prendere la prima volta in albergo perché non sapevo come andare agli allenamenti. Non ci siamo mai più lasciati, anche se sta diventando un po’ vecchio (ride)». 

Firenze, tre angoli che ama frequentare? «Piazzale Michelangelo, il Salone dei Cinquecento, il Duomo… quando ti spunta davanti maestoso, appena uscito dalle stradine, è sempre una magia». Da quando giocava ad ora, ha trovato la città cambiata? «Si è trasformata pian piano. Come le persone, crescono, cambiano, ma non sai mai individuare quando è accaduto». Lei ha una casa qui, perché sceglie di stare in albergo? «In effetti ho una casa al piazzale Michelangelo, ma la do in affitto, e mi dispiace perché l’ho fatta per me e la mia famiglia. Volevo starci ma non ne ho mai avuto la possibilità. Pensi che non ci ho mai dormito». A proposito di trasformazioni. Ha visto il progetto del nuovo Franchi? Che ne pensa? «Mi sembra bello. Forse non è quello che ci si aspettava, all’epoca si pensava a una modifica importante come a una sorta di nuovo Bernabeu. Si è deciso di scegliere diversamente, mi piace lo stesso». 

La disciplina è stata una costante della sua esistenza: è arrivato che era un ragazzo normale, è andato via da campione. Come ci è riuscito? «Perché avevo un obiettivo. Quando hai una meta, bella, chiara, importante diventa tutto più facile: sei costante e non molli mai». E qual era il suo obiettivo? «Volevo arrivare a 50 anni ed essere quello che sono oggi, un uomo libero». Ma di sacrifici ne ha fatti… «E’ come quando vai in palestra, all’inizio ti sembra durissima. Ho fatto sacrifici ma in quel momento non potevo mollare». 

E ha insegnato questo rigore ai suoi figli? «Non si può spiegare ciò che si è vissuto sulla propria pelle, quel desiderio, quella voglia. E’ difficile da insegnare, e un po’ ho lasciato perdere. Vorrei sempre qualcosa in più per i miei figli, ma la vita appartiene a loro». Eppure fece scalpore l’aver mandato il primogenito a lavorare in copisteria… «A un figlio si insegna a bere, non si prende un bicchiere e gli si porta l’acqua alla bocca. Ancora oggi tutto il mondo si sorprende. Questa domanda me la fanno perfino in Giappone. E invece cosa c’è di strano nel fatto che i ragazzi debbano costruirsi da soli?». 

Ha fatto storia il ‘te amo’ a sua moglie dopo un gol. Eppure anche una coppia storica come Totti e Ilary si è lasciata. Come si fa a far durare così tanto un amore? «Non è che non si litiga. Ma bisogna fare delle scelte. Di sicuro non è che alla prima litigata o alla prima cosa che non funziona ci si divide. Certo, ogni coppia è un mondo a sè. Per Francesco e Ilary dispiace ma se hanno scelto così…». Oggi direbbe di nuovo quel ‘Irina te amo’? «Certo ma oggi non faccio più gol». Ma gioca ancora a pallone… «A pallone (ma non lo dica al mio medico che mi ha messo una protesi), a padel, a ping pong, anche a bocce. Non riesco a stare fermo. Adoro tutto quello in cui si può vincere, tranne il casinò». 

E perdere? «Non so perdere e nemmeno vincere. E’ il gusto della sfida: voglio sempre giocare con qualcuno che potrebbe battermi. Così si cresce, anche nello sport». A proposito, come stanno le sue caviglie? «Bene». C’è qualcosa di cui si è pentito nella vita e nel lavoro? «Una cosa sola? Duecento. So che ho sbagliato tante volte ma nessun errore è stato poi così determinante». Di lei è stato scritto tutto? Oppure, oltre a Batigol, c’è un Gabriel sconosciuto? «Adesso sorrido di più, sono più rilassato. Per me il calcio è stato un lavoro, un lavoro bello ma anche una grande responsabilità. C’è gente che pagava per vedermi e non potevo permettermi che fosse solo un gioco. Quindi prendevo tutto sul serio e non avevo spazi per rilassarmi, apparivo duro. Basta una battuta per montare un polverone e voi giornalisti siete sempre in agguato». 

Antipatico, quindi … «Adesso sono decisamente più simpatico». Lei si considera una persona avara? «Avaro? Non so cosa sia. Se significa buttare via i soldi solo per fare contenti gli altri può darsi. Io mi sono guadagnato i miei soldi dal primo all’ultimo e li uso come pare a me. Poche volte compro qualcosa di cui non ho bisogno e quando ho bisogno non guardo il prezzo. Chiamatelo come volete». Lo scrive La Nazione. 

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